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Intervista ai Soyuz - a cura di Bugs!

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Ciao ragazzi, innanzitutto grazie mille per il tempo che ci state dedicando. Per cominciare vi chiediamo di raccontarci di voi. Come e quando si è formato il gruppo? Come vi siete incontrati e quando è maturata la decisione di suonare insieme?

Soyuz nasce a fine 2007, da un'idea che ronzava nella testa mia (Marco) e di Mauro, protagonisti in precedenza di un'altra esperienza importante, conclusasi un anno prima. Inizialmente, le idee erano poche e ben confuse. Con l'arrivo di John, qualche piccolo cambio di formazione, e un buon picco di creatività, il tutto ha cominciato a girare. Altrettanto fondamentale è stata poi la conoscenza di Paolo del Jack Hole, che ci ha dato un posto dove provare, ed è stato il primo a credere realmente nella nostra musica.

Premetto che riconosco la mia ignoranza. Però ho fatto i compiti. Ho googlato Soyuz è scoperto che (da Wikipedia) "Sojuz (in russo [s?'jus], "unione") o, secondo la traslitterazione inglese, Soyuz è il nome con cui è conosciuta una serie di veicoli spaziali sviluppati da Sergej Korolev per il programma spaziale dell'Unione Sovietica". Nome impegnativo... Da dove è uscito?


Ci piaceva moltissimo l'immaginario della corsa allo spazio degli anni 60, tra conquiste della luna, cani astronauti e prototipi di astronavi. Esteticamente e filosoficamente, il concetto era forte. Poi wikipedia ha aiutato, ed è saltato fuori il nome Soyuz, che in realtà è l'ultimo dei protocolli spaziali russi, quindi poco c'azzecca con gli anni sessanta. Però è un nome fico, no?

Leggo sulla vostra bio un interessante parallelo tra la missione spaziale, intesa come viaggio alla scoperta di qualcosa di nuovo e inesplorato e la fuga dalla realtà di provincia, intesa come un'evasione da qualcosa di opprimente, di poco stimolante. E' così tremenda la vostra esperienza a riguardo?

In realtà il nome, nato per caso, ha aiutato a fotografare la volontà di fuga: essere da un'altra parte, in un altro momento. Non tanto perchè la “provincia” sia così tremenda, noi ci stiamo anche bene qui. È il nordest produttivo che fa rabbrividire, che premia l'intraprendenza in termini economici e associa indissolubilmente felicità a denaro. I testi di Mauro raccontano anche di questo.

La musica in questo percorso di evasione ha giocato un ruolo importante?

Indubbiamente si. Anche se con “evasione” c'è sempre il rischio di considerare la musica nei termini di una valvola di sfogo, come la partita a calcetto del mercoledì sera con i colleghi. Per noi è stato fin da subito – anche con un niente in mano – un progetto parallelo, a volte alternativo, dedizione, sudore e sacrificio nel nome di una passione sacra e mai sopita in tutti e tre. È stato fondamentale fin dall'inizio avere chiaro in testa come e dove arrivare, con i piedi trapiantati ovviamente al suolo. Anche perché oltre i venti, mi sembra di capire che si viva più di stimoli che di sogni.

Quali sono le soddisfazioni più grandi che il vostro percorso artistico intrapreso fin'ora vi ha riservato? O un ricordo a cui siete particolarmente legati.


Abbiamo infilato un paio di concerti indimenticabili, per il pubblico, per il nostro stato di forma, per la spensieratezza sul palco. Certamente, a oggi, la soddisfazione più grande è Everybody loves you: averlo creato, e soprattutto averlo registrato con David al Red House, un'esperienza unica in assoluto.

Leggo che avete all'attivo molti concerti. Quanto sono stati utili per avere una maggior sicurezza e per fare squadra?

Sarebbe banale dirti quelli andati peggio. Però è così. Diciamo che in questi due anni le delusioni non sono state poche: i viaggi di ritorno e le telefonate del giorno dopo, amareggiate ma desiderose di riscatto, sono stati fondamentali. Le volte che invece le cose giravano per il verso giusto, l'entusiasmo ci ha aiutato molto a credere e ad andare avanti.

Per un gruppo la dimensione live e il contatto col pubblico sono importantissimi. Secondo voi com'è lo stato della musica da vivo in Italia? Molti artisti con cui abbiamo parlato ci hanno dipinto un quadro non molto roseo della situazione.

Il quadro non molto roseo, ahimé, credo riguardi più la musica in genere che il live. Parliamoci chiaro: qui i dischi non si vendono, e i professionisti del settore non hanno più la minima voglia di rischiare. Oggi la musica italiana che venducchia è quella dei talent-show. I concerti invece ci sono, anche di qualità. E il palco, nonostante tutti gli accorgimenti tecnologici, alla fine premia chi ci sa stare sopra. Ovvio che in tempi in cui il numerario è quello che è, chi gestisce i locali – le sagre – i festival preferisce da buon zoticone affidarsi alla cover band di vasco o degli u2. Ma questo fa parte del gioco. Per noi la ricetta è sempre stata quella di suonare, suonare, suonare. Se hai qualità, prima o poi salti fuori.

Cosa ne pensate del panorama underground-alternative italiano? E' molto difficile cercare di proporre qualcosa di diverso?

È molto difficile farsi strada con qualcosa di diverso, forse si. Il pubblico italiano, anche quello più indie, è piuttosto freddino, si strappa i capelli soltanto per pochi eletti. È un problema di cultura musicale, che per certi versi nel resto dell'Europa è più sviluppata. Inghilterra, Germania, Nord Europa: i locali sono pieni di gente che vuole ascoltare musica nuova, che ha fame di gruppi emergenti. Questo fa alzare di molto l'asticella della qualità, perché davvero il pubblico premia i più forti. Noi della penisola tendiamo a muoverci poco e solo per chi ne vale la pena. E quando beviamo la birra non vogliamo sentire casino. Detto questo, in Italia c'è un sottobosco molto vitale, pensa a La Tempesta, Trovarobato, nel nostro caso la Black Nutria: etichette che hanno l'unico scopo di promuovere roba nuova. Con la concreta possibilità di non prenderci un soldo. Si torna al discorso di prima: di qui passa certamente meno denaro, ma gli stimoli sono fortissimi.

Internet in questo senso negli ultimi anni ha aiutato parecchio il mercato indipendente e le band emergenti. Qual è il vostro rapporto con la tecnologia applicata alla musica? Ritenete che sia semplicemente un'enorme risorsa, una bomba che farà saltare in aria il mercato discografico per come lo intendiamo oggi, o un prezioso strumento utilizzato, come accade molto spesso, nella maniera sbagliata?

Entrambe le cose. Qualche storico dice che dopo la rivoluzione industriale e quella francese, l'era contemporanea si chiude con la rivoluzione informatica. Il punto è qui: il computer, e ancor di più internet, ha cambiato tutto della nostra vita, basta guardarsi intorno. La musica deve farsi una ragione dell'mp3: i patiti del disco – prima vinile, poi cd – ci saranno sempre e continueranno a cercare un supporto fisico da collezione, da bacheca. Ma la musica si ascolta nell'etere, ormai. È virtuale. Ma il mercato discografico, se non l'ha già fatto, salterà in aria non tanto per questo motivo, ma perché appena ha annusato il rischio, ha tirato i remi in barca. Zero capacità di reazione e innovazione. Per quanto riguarda i social network, noi utilizziamo myspace, facebook, twitter e co. con la consapevolezza, ancora, che la partita si giochi sul palco. Su internet si può dissimulare alla grande, migliaia di pacche sulle spalle, di complimenti, di scambi di amicizie. Ma la musica – la vita? – è un'altra storia.

Dopo questa breve digressione torniamo a parlare di voi e della vostra musica. E' uscito da poco "Everybody Loves You", il vostro primo album ufficiale. Volete parlarcene un po'?

É un progetto molto chiaro, compatto. È un'idea di disco che ci ha nata nel corso di una stagione circa. Abbiamo arrangiato le idee di Mauro che sentivamo più giuste, più forti in quel momento. Poi abbiamo cercato, dallo studio di registrazione alla grafica della copertina, di dargli un senso unico, in termini di suono e concetto. Ecco allora la scelta “americana” di lavorare con David in analogico, della masterizzazione a Chicago e dell'artwork ad opera di Jason Farrell. Ed ecco il titolo Everybody loves you, a fotografare per contrasto paure e angosce di cui sopra. Tranne qualche episodio, testi e musiche viaggiano infatti tra claustrofobia e malinconia.

Rispetto al precedente EP che avete realizzato nel 2009 quali sono le differenze e i punti di contatto? Vi trovate cambiati in qualche modo in questo ultimo anno?

Un po' più incazzati, forse. L'EP nasceva in un momento più solare, il disco invece è stato creato in momenti personali di tensione, delusione, stress. Ci siamo divertiti un casino, per carità, e costruire questi pezzi è stata un'esperienza splendida. Ma di fondo, ha coinciso per ognuno con momenti particolari. La cosa più bella è stata proprio rendersi conto di essere perfettamente rappresentati in quel momento da quella musica. È per questo che di quell'EP abbiamo tenuto soltanto Around me, maybe.

Influenze: quali sono i gruppi o gli artisti che sono stati particolarmente importanti per la vostra crescita personale e musicale o ai quali vi sentite più vicini come modo di suonare? Avete più o meno gli stessi punti di riferimento oppure avete influenze totalmente diverse?


La seconda che hai detto. Siamo un gruppo dove eterogeneità e democrazia sono all'ordine del giorno. Mauro, che porta in sala prove la sostanza dei pezzi, ha influenze varie e più o meno importanti. Nei suoi miliardi di ascolti ci sono grandi nomi – Helmet, Ramones – moltissimo hardcore americano e una marea di altre cose, dagli Oasis al country. John è un ascoltatore altrettanto curioso, cresciuto a pane, Smashing Pumpkins e Sonic Youth. Io (Marco) vario moltissimo, anche se ultimamente ho un debole per certo folk-rock americano (Bon Iver, Decemberists, National...). Ci uniscono sicuramente, per questioni anagrafiche gli anni 90 e un orecchio il meno viziato possibile.

Come nascono i vostri pezzi? C'è qualcuno che compone? Qual è l'apporto dei singoli componenti nella stesura delle tracce?


Mauro è compositore di testi e musiche. Solitamente fa uso di supporti digitali per la registrazione dei pezzi, che gli permettono di farceli ascoltare già ben strutturati. In sala prove non facciamo altro che arrangiarli: aggiungere o togliere parti, creare riff, pattern ritmici, interplay tra gli strumenti... Le prove sono un momento in cui l'apporto è splendidamente democratico, un vero gusto!

Il lavoro in studio invece, a grandi linee, come si svolge? Cambiano molto i vostri brani tra la prima stesura e la versione definitiva?

Raramente. Siamo tutti e tre dei paranoici, per cui fin dall'inizio, per evitare sedute creative estenuanti sulla stessa idea, abbiamo tacitamente deciso che se un pezzo non funziona una volta, non funziona più. Questo ci ha permesso di lavorare su moltissime idee, di lasciarci alle spalle tanti “morti”, ma allo stesso tempo di avere sempre molto chiaro in testa che cosa volessimo dall'idea su cui stavamo lavorando in quel preciso momento. Abbiamo scelto i pezzi, già pronti e suonati mille volte, e siamo andati in studio. Anche per questioni logistiche – non potevamo chiuderci al Red House per mesi – non abbiamo cambiato praticamente nulla.

Con quale criterio avete scelto le canzoni da inserire nell'album? Ci sono state delle canzoni rimaste nel cassetto? E nel caso avete idea di che fine farà quel materiale?


Molte nel cassetto. Siamo partiti da circa 30 pezzi finiti, e almeno un'altra dozzina di abbozzati. Le abbiamo scelte abbastanza facilmente: per i motivi di cui sopra, erano quasi tutte le ultime cose prodotte. Ci siamo sentiti rappresentati da quei 10 pezzi, e quelli abbiamo messo. Per quanto riguarda il resto del materiale, conoscendoci: mi sa che non finirà da nessuna parte. Il prossimo lavoro sarà probabilmente figlio di un'ondata creativa ancora diversa.

So che talvolta è difficile rispondere a questa domanda ma c'è un pezzo a cui siete maggiormente legati o di cui vi ritenete particolarmente soddisfatti del risultato?


Davvero, nessuno particolarmente. La democrazia passa anche per almeno 3 diversi pezzi preferiti a cranio. Ti posso dire però che è stato divertente lavorare su Smart kid, perché ha richiesto uno sforzo tecnico e psicologico di creazione e esecuzione in studio inaspettato. Around me, maybe rappresenta ovviamente la nostra continuità. Tofu invece è stato una piccola svolta: è dopo averlo sentito finito per la prima volta che ci siamo resi conto di una piccola crescita artistica. È stata una bella sensazione.

Oggi come oggi per voi quanto conta e quanto costa l'essere indipendenti? Vantaggi e svantaggi di lavorare con un'etichetta indipendente.

É presto per fare un bilancio. Costa sicuramente, è un investimento inizialmente fatto di pura passione cristallina. Non sappiamo ancora quanto conti, per ora è splendido lavorare con persone che telefonano, scrivono, si sbattono per te e per un progetto comune. La dimensione della Black Nutria è l'ideale per far partire un disco come il nostro.

Progetti a breve e lungo termine?

Suonare, suonare, suonare. Saremo in giro per l'Italia durante tutto l'autunno e l'inverno. Probabilmente ci sarà anche un video, prima o poi. Per il termine di più ampio respiro... suonare, suonare, suonare.

Vogliamo ricordare infine a chiunque sia interessato dove può venire a conoscervi sul web e dove acquistare il vostro nuovo disco?

I riferimenti sono certamente www.myspace.com/thesoyuz e per i faccialibrari www.facebook.com/thesoyuz. Il disco lo si può già ascoltare integralmente nei nostri spazi web, e lo si potrà acquistare da ottobre in poi online e fisicamente in tutti i negozi raggiunti da Audioglobe.

Ancora grazie mille per la disponibilità e in bocca al lupo per tutto.

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