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Thee Mutandas - Son of a Bitch

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Thee Mutandas - Son of a Bitch

Etichetta: (R)esisto

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Non per forza l'originalità deve essere considerata un valore aggiunto in un progetto musicale. O per lo meno, ben venga quando c'è, ma ci sono alcuni casi (molto pochi in realtà) in cui la non originalità viene issata come una bandiera, diventa un segno distintivo e portata ad estremi così elevati da diventare essa stessa un punto di forza. Viene esasperata talmente tanto da essere considerata a suo modo originale. E' il caso di Thee Mutandas, power duo di origine ferrarese, che ha fatto della sua bizzarra ordinarietà un segno inequivocabile della sua genialità.
"Son of a Bitch", ovvero il disco d'esordio di James Johnson e John Jameson, questi i loro nomi (qualcosa ci fa pensare che non si tratti dei loro nomi di battesimo...), è un condensato di espolosività, grinta e attitudine rock. Tredici tracce a cavallo tra il punk di fine anni '70, quello delle origini, e l'alternative rock, che non possono non riportare alla memoria un gruppo su tutti, ovvero i Ramones, i capostipiti di un intero movimento. Di certo loro, come i Ramones del resto, non fanno della tecnica il loro punto di forza. Anzi, al contrario, sembrano fregarsi completamente delle loro carenze e sfoggiano questi loro limiti come un valore aggiunto, non cercando in alcun modo di nasconderli o di mascherarli, ma mettendoli in evidenza il più possibile.
Il risultato di tutto questo è un album dal sound grezzo e sporco, graffiante, diretto e autentico come un'esibizione dal vivo. Non mi stupirei affatto infatti se il disco fosse statao registrato dal vivo, buona la prima. Una musica essenziale al massimo, una chitarra (potentissima), una batteria (martellante) e due voci (piuttosto stonate, di sicuro i ragazzi non hanno studiato canto) che arriva diretta come un pugno nello stomaco. Un vero e proprio muro di suono e ritmi ossessivi che inizialmente forse destabilizzano un po', ma a cui ci si abitua col passare dei minuti.
Anche per quanto riguarda i testi i Thee Mutandas sembrano voler giocare a provocare l'ascoltatore. Praticamente, fatta eccezione per pochi sparuti casi (come la ballad lenta "I Die Today", un pezzo quasi grunge), più che di testi possiamo parlare di frasi, di motti ripetuti all'infinito, che molto spesso coincidono con i titoli stessi dei pezzi. In alcuni casi poi la presa in giro diventa del tutto palese e assume toni demenziali, come "Chicken in the kitchen" (There's my chicken in your kitchen. There's your chicken in my kitchen...).
La cosa più divertete di tutto è che stranamente la ricetta funziona e il disco diverte e si lascia ascoltare molto bene. Insomma, "Son of a bitch" è un vero e proprio casino: un album ruvido, graffiante, spigoloso, potente, sconclusionato, essenziale, ossessivo, veloce e strafottente, che a tratti sembra stato registrato durante i postumi di sbronza colossale (non è da escludere), a tratti sembra prendere in giro l'ascoltatore, ma che per qualche strana alchimia colpisce e appassiona. Un disco che risulta originalissimo nella sua totale e ostentata mediocrità.

[B!]

 

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