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Intervista

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Ciao Davide, grazie per averci concesso qualche minuto per la nostra intervista. Cominciamo:

All’inizio della tua carriera facevi parte di un gruppo chiamato i “Potage”. Qual è stata la strada che ti ha portato a dedicarti al genere folk-rock e perché?

Ti posso dire da subito che i Potage sono stati un connubio tra bene e male, infatti il gruppo era poco conosciuto e affermato all’epoca. La band è nata per un insieme di passioni e per la mia verve da diciassettenne che si è fatta trasportare dalla musica del periodo caratterizzata per lo più da gruppi come i Sex Pistols e soprattutto i Ramones. E’ stato sicuramente uno dei periodi più belli della mia vita; non mi consideravo ancora un musicista a tutti gli effetti, ero alle prime armi e per me si trattava fondamentalmente di giocare con gli strumenti imitando le movenze e gli atteggiamenti dei componenti di gruppi stravaganti e originali, come per esempio i Blues Brothers. Devo dire che però mi sentivo già avido di palco e nonostante la mia timidezza è stata proprio la mia grande passione musicale per tutti i più grandi cantautori ad accompagnarmi fino al successo. Mi ricordo ancora le prime prove che facevo in garage con gli amici, in cui l’elemento predominante era la più totale spensieratezza, ed è questo fondamentalmente il motivo per cui abbiamo cominciato a dedicarci ad un genere, che io ho ribattezzato punk-folk, dove non c’è bisogno di parlare di politica che profondamente odio e non trovo interessante, dove non c’è bisogno di etichettature, ma è importante soprattutto la propria credibilità.

Oggi sei noto con il nome di “Davide Van De Sfroos”, ma inizialmente il tuo gruppo aveva il solo nominativo “De Sfroos”. Da dove ha origine il nome e come mai quando sei diventato solista hai deciso di mantenere questo legame con il passato?

Il nome di una band principalmente deve essere un fattore scatenante e che metta curiosità. Ho usato per la prima volta questo pseudonimo per la pubblicazione del mio primo album come solista “Breva e Tivan”. Questo nominativo è stato inventato dal barbiere del mio paese ed è diventato fin da subito il mio simbolo e logo personale, fin da quando suonavo alle feste del missultino. Prima ancora di essere noto come cantautore usavo già questo pseudonimo come scrittore su un giornale locale. Dunque sento che mi appartenga profondamente, per me non si tratta affatto di un legame con il passato, ma una scelta dovuta al fatto che la gente che conosceva la mia musica ormai mi associava a quel nome e poi appunto per la paternità che ne rivendico, come già detto lo sento molto mio.

Nel corso della tua carriera, non si può fare a meno di notare il continuo avvicendamento dei musicisti che suonano con te, nonostante sembri esserci tra voi un buon feeling, unica eccezione per il tuo insostituibile violinista Angapiemage Galliano Persico. Quali sono i motivi di queste continue evoluzioni della band?

Prima di tutto a me piace molto lavorare con gente nuova e scalpitante, piena di energia. La mia band non è come i Rolling Stones, ossia non ho una formazione fissa, ma tutto dipende dalla mia pazzia musicale, dal genere e dal tipo di piega e di suono che voglio far prendere ad un disco. Musicalmente parlando i miei album si differenziano abbastanza l’uno dall’altro. Il mio essenzialmente è un modo di voler essere che mi rende al tempo stesso vittima e carnefice dell’evoluzione della mia musica, inoltre non voglio essere né un tiranno né un tutore di una band che vorrei fosse sempre il meno stagnante possibile. Tutti i musicisti con i quali ho avuto il piacere di suonare nel corso degli anni li considero tutti bravissimi e per me è sempre una gioia risuonarci insieme, e rinfrescarmi la memoria: ho di tutti un bellissimo ricordo. Niente di personale dunque, ma io sono il mio, ossia “züca e melùn g' han la lur stagiùn” (Zucca e melone hanno la loro stagione)! In ogni caso mi voglio considerare un buon trampolino d lancio per tutti i nuovi talenti che hanno il piacere di voler suonare con me.

Quando vai in giro per le strade del tuo paese e più in generale della tua zona, in cui sono ambientate gran parte delle storie che racconti nei tuoi dischi e nei tuoi libri, che cosa provi e com’è il rapporto con gli abitanti di quei luoghi?

Il rapporto con gli abitanti di quei luoghi, in cui ho vissuto gran parte della mia giovinezza, è di interscambio ed entusiasmo, anche se qualcuno ogni tanto esagera esaltandosi un po’ troppo, ma i problemi sono esclusivamente suoi. A me piace l’idea di celebrare la vita delle persone di quei luoghi, cartolinati e incorniciati in quadretti che sanno di muschio e di stantio; non voglio essere un paladino dei deboli e degli oppressi, e nemmeno un araldo: questo la gente del posto l’ha capito così come il mio esperimento, quello di riunire diverse generazioni sotto i palchi da cui mi esibisco.

Nei tuoi testi vengono narrate le storie di personaggi bizzarri e incredibili: da dove nasce l’ispirazione? Sono totalmente frutto della tua fantasia o sono racconti di persone realmente esistite?

La base di partenza è per l’ottanta per cento legata alla realtà e racconto quindi storie di personaggi esistenti o esistiti che ho incontrato girando lungo il percorso della vita. Le storie prendono vita riunendo queste esperienze e impastandole con la fantasia. Però adesso si cambia. Sto lavorando ad un nuovo album nel quale sarò molto più sfacciato nel fare nomi e non saranno più riferimenti casuali, ma sarà la nascita di un nuovo stile per il quale io sarò contento di accontentare il protagonista della canzone. Non riesco a immaginarmi Dante così come viene comunemente raffigurato, con due foglie di basilico in testa e la cuffietta da deficiente seduto su una roccia ad aspettare l’ispirazione; Dante era uno che viveva e i suoi racconti derivano da esperienze di vita. Per me è più facile immaginarmi il grande poeta fiorentino che si diverte in compagnia di donne dai facili costumi.

In un tuo pezzo intitolato “El Mustru”, è molto curioso il personaggio principale che ha la visione di un mostro in mezzo al lago. Raccontaci come è nato questo pezzo.

Intanto per cominciare il mostro del lago è esistito (o qualcosa di simile è esistito). La storia essenzialmente parla della perdita della credibilità delle persone che per squilibrio, motivi di salute o una cosa più grossa di loro vengono emarginati; a questo punto la mostruosità è non essere creduti ed essere considerati dei ballisti. Tutti noi abbiamo visto dei mostri che dipendono dallo straordinario che ci travolge e che io ho voluto ricordare in questa canzone.

In una tua precedente intervista, hai rivelato la volontà di lavorare in un “manicomio” e l’intenzione di voler essere un “ponte” tra il mondo dei normali e le persone che vivono in un Universo un po’ spostato. Qual è emotivamente l’ispirazione che ti porta a raccontare queste situazioni di disagio?

Tutto nasce da un’esperienza familiare che mi ha colpito in prima persona e che ho vissuto sulla mia pelle. Mi sentivo una forza dentro che dovevo liberare; era un periodo che ero molto stressato e anch’io avevo bisogno di aiuto. Questo mi ha portato a sentirmi come un tramite buono e mi rendevo utile nei confronti di chi aveva bisogno del mio supporto. Il motivo che mi porta a raccontare queste situazioni di disagio è perché considero la pazzia un Universo che grande o piccolo è in tutti noi. Questo mi ha portato a vedere con altri occhi il problema: ad esempio il “matto” viene considerato affascinante nei tarocchi e più forte in natura nella cultura azteca.

In Italia sono presenti un’infinità di modi diversi di esprimersi e che variano da zona a zona su tutto il territorio nazionale. Da cosa è dipesa e come è nata la tua scelta di comporre utilizzando il dialetto? Può essere un metodo originale per mantenerlo vivo anche tra i giovani che lo stanno perdendo?

La mia scelta di comporre utilizzando il dialetto è nata in un modo normale per effetto della naturalità; non è mai stata una decisione spinta o pilotata. Mi sono ispirato nella scelta a Dante Alighieri, che in Italia è stato uno dei primi a comporre e scrivere utilizzando la lingua del suo territorio. Il dialetto penso che sia fondamentale tenerlo vivo e spero che in parte la mia musica possa contribuire a farlo sopravvivere anche tra i giovani d’oggi.

A livello regionale come è stata accolta la tua scelta di cantare in dialetto? E’ stata apprezzata ovunque con lo stesso entusiasmo? Inoltre sappiamo che negli ultimi anni la tua popolarità ha varcato anche i confini della Lombardia: dal Nord-Est fino al Sud Italia, com’è il tuo rapporto con il pubblico delle altre regioni?

La scelta di cantare in dialetto è stata recepita oltremodo e a livello superiore rispetto alle aspettative. Anche in città come Bergamo, ad esempio, la mia musica e il mio modo di esprimermi sono stati accolti con un grande entusiasmo, così come tu ricordi nel nord est Italia, in Piemonte, fino al sud. Penso che l’uso del dialetto non sia un ostacolo alla diffusione della mia musica nelle diverse regioni, in quanto alla gente piace “sforzarsi” per cercare di capire una lingua strana ed esotica. Come me ci sono gruppi come i Tazenda, i fratelli Mancuso o lo stesso Fabrizio De Andrè, piccole diversità che fanno grande l’Italia. Comunque, a prescindere dalla comprensione o meno dei testi, la gente ti può apprezzare anche per il tipo di musica che suoni. Per esempio a New Orleans ho una piccola cerchia di fan e ho avuto anche il piacere di collaborare con grandissimi musicisti locali durante le mie serate, nonostante non capiscano nemmeno una parola di quello che canto ci accomuna il linguaggio universale della musica.

Le tue partecipazioni a diversi programmi televisivi, specialmente sulle reti RAI e trasmessi in tutta Italia, hanno in qualche modo agevolato o contribuito al tuo successo?

Onestamente posso dire poco, perché le mie comparsate sono state per lo più sporadiche, in ogni caso piccola o grande che sia la Tv è un palco video che ti mette in mostra e ti fa conoscere fin dove riesce ad arrivare, mettendo molte volte in visione anche delle realtà più piccole che altrimenti non riuscirebbero ad arrivare ovunque.

Nel 2005 sei entrato in classifica direttamente al 12° posto con il tuo ultimo disco “Akuadulza”. Cosa hai provato a trovarti davanti ad artisti del calibro di Antonacci, Vasco Rossi, Battisti e molti altri? E’ stato il punto di arrivo di un percorso precedentemente intrapreso oppure era il disco in sé che ha attirato i favori del pubblico?

Il successo del 2005, devo essere sincero, non è stato assolutamente previsto, tanto meno il frutto di un percorso pensato precedentemente. Per me è stata una grande soddisfazione perché in quel momento non eravamo supportati da hit parade o compilation. Il mio grazie va a tutti coloro che hanno creduto in me e che grazie al passaparola hanno contribuito ad allargare la mia popolarità. Essere catapultato al dodicesimo posto tra Vasco Rossi e Antonacci mi ha fatto sentire confortato e coccolato.

Bene, con questo abbiamo terminato. Grazie mille per la tua disponibilità, e in bocca al lupo per il tuo nuovo disco.

 

Davide Van De Sfroos

davide van de sfroos
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