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Take That - Progress

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Take That - ProgressQuando lo scorso 15 luglio fu ufficialmente annunciato che i Take That si sarebbero riuniti nella formazione originale per incidere un nuovo album, tra i fans cominciò a serpeggiare una domanda: sarà un album dei Take That o di Robbie Williams? Ovvero, prevarrà la linea melodica degli ultimi 2 album della band, caratterizzati da ballads di ampio respiro, echi beatlesiani e un romanticismo calibrato e mai melenso oppure sarà il reintegrato Robbie ad influenzare il lavoro col suo pop robusto, ironico, gigione e a tratti dissacrante? La risposta al grande quesito è arrivata esattamente quattro mesi dopo, il 15 novembre, con l’uscita dell’album “Progress” che a conti fatti non è né un album dei Take That così come ci eravamo abituati a conoscerli negli ultimi anni, né di Robbie Williams. È un album di Stuart Price. Mi spiego meglio: per evitare di cadere nell’empasse citato, la band ha coraggiosamente intrapreso la ricerca di un sound che non fosse solo una somma delle parti delle componenti del gruppo, ma fosse un qualcosa di nuovo, un’evoluzione… un progresso, appunto. Per fare questo i Take That si sono affidati all’acclamatissimo produttore Stuart Price - famoso per aver lavorato tra gli altri con Madonna, i Killers, gli Scissor Sisters e Kylie Minogue- il quale ha svolto diligentemente il compito affidatogli confezionando un album che imprime sicuramente al gruppo una nuova direzione musicale, ma lo fa con una tale decisione da risultare spersonalizzante.Ciò che emerge infatti da “Progress” è la presenza forte di Price negli arrangiamenti, nelle ritmiche, nei suoni, nella campionatura delle voci, tutte caratteristiche che sono il marchio di fabbrica del noto produttore, ma che tolgono identità al progetto che risulta così ibrido, anonimo, persino disorientante. Sia chiaro, non sto dicendo che “Progress” sia un brutto album, tutt’altro. Le canzoni sono solide, ben scritte, a tratti potenti, il sound generale è omogeneo e coeso, l’alternanza dei brani crea un percorso musicale che non ha rallentamenti, né momenti morti. Ma l’uso dell’elettronica è talmente massiccio ed invadente da travolgere tutto, da sovrastare le voci che sono spesso deformate da eccessive campionature, da soffocare le linee melodiche che vengono penalizzate da una ritmica marcata, quasi marziale e perennemente in primo piano. Se queste caratteristiche risaltano (fortunatamente) poco in “The Flood”, primo singolo e brano di apertura dell’album, diventano invece disturbanti in pezzi come “Wait”, “Pretty Thing” o “Happy Now” che pur godendo di un’ottima scrittura, nella quale la melodia classica dei Take That si sposa perfettamente con l’ironico disincanto di Robbie, sono mortificati da arrangiamenti prepotenti, da un uso deformante dell’elettronica e da quel “tocco Price” che in certi casi è semplicemente “troppo”. Come i n “ SOS ” , “K i d z ” e “Underground Machine”, brani talmente scuri, tesi ed aggressivi, talmente lontani da ciò che eravamo abituati a conoscere dei Take That come di Robbie, da fare pensare che -proprio come la storia del mondo ci insegnanon sempre il Progresso porta ad un reale miglioramento. Si arriva alla fine dell’album sorpresi, storditi, toccati anche da piccole perle come “Eight Letters” o la ghost track “Flowerbed”, ma più di tutto prevale il retrogusto amaro di un’occasione mancata. Poteva essere questo un album di grandi emozioni, poteva commuovere e divertire, ma l’ansia di stupire ha portato ad un prodotto con poca anima e troppi effetti speciali nel quale invece che spiccare le cinque personalità di Gary, Mark, Howard, Jason e Robbie, ne emerge una sola… quella -mi ripeto, lo so- di Stuart Price. Peccato! [Sergio]
 

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