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Intervista ***Versione italiana***

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Ciao Joe, grazie per averci concesso qualche minuto del tuo tempo prima di questa tua esibizione dal vivo. Cominciamo. Quando è nata la tua passione per la musica e a che età hai capito cho poteva diventare qualcosa di serio?

E’ nata nei primi anni settanta, io avevo 16 anni. Il primo contatto con la musica, specialmente in lingua inglese, è stato coi Beatles e i Rolling Stones, come per tutti i ragazzi di quella generazione del resto. Devo dire che abbiamo avuto una buona scuola! E appunto avendo come modello di riferimento Beatles e Rolling Stones, si iniziava a prendere in mano le chitarre e si cercava di imitarli, anche nella pettinatura e nel modo di vestirsi: è stata una vera e propria rivoluzione, specialmente al sud dove io vivevo all’epoca. Quando è iniziato a diventare qualcosa di serio...? In realtà fin da subito è stata una cosa seria; appena ho iniziato a suonare e vedevo che tutti mi facevano i complimenti, ho capito che era una passione che potevo far crescere seriamente, e che forse sarei potuto diventare qualcuno suonando la chitarra; dopo le prime lezioni, che in realtà non si possono definire nemmeno lezioni, mi accorsi che ero già perfettamente in grado di suonare. Ma non solo io; ripeto è stata tutta una generazione che ha preso in mano le chitarre e senza studiare, ha iniziato a fare musica. Io faccio sempre l’esempio dei ragazzi d’oggi che giocano al computer o alla playstation e sono bravissimi, se dovessimo noi provare a metterci a giocare… mentre quella è stata una generazione con una profonda passione per la musica e che è cresciuta con la musica.

Possiamo dire che con Kim Brown e coi Kim & the Cadillacs hai raggiunto l’apice della tua popolarità. Cosa facevi all’epoca, come l’hai conosciuto e com’è oggi il vostro rapporto? Siete ancora in contatto?

Diciamo prima di tutto che io non ho suonato con i Kim & The Cadillacs nel momento del loro maggior successo, io ho conosciuto Kim una ventina di anni fa quando la sua band si era già sciolta, e poi siamo diventati molto amici finchè un giorno abbiamo deciso di suonare insieme. Giravamo per i locali per fare sia delle serate acustiche che delle serate elettriche; e poi ogni tanto si univa a noi anche l’altro componente dei Kim & The Cadillacs, che si chiama Trutz Viking Groth e ci divertivamo a suonare insieme. Siamo ancora amici; attualmente lui però si è trasferito in Finlandia dove vive suonando. Non che l’Italia non gli piacesse, è solo che qui non aveva più lo stesso seguito che aveva in altri paesi, come in Finlandia per l’appunto, dove era conosciuto anche grazie ai Renegades, gruppo di cui faceva parte prima dei Kim & the Cadillacs. Era famosissimo da quelle parti.

Qualche domanda da parte di alcune fan di vecchia data. Prima di tutto cos’è cambiato per il gruppo dopo la partecipazione al Festival di Sanremo?

Diciamo che io non suonavo ancora con Kim all’epoca della partecipazione al Festival di Sanremo. Il gruppo invece partecipò tre volte, e l’ultima sarà stata una ventina di anni fa con un pezzo che cantavano insieme all’Equipe 84, ma io non ho partecipato a quell’edizione.

Sappiamo che all’epoca Kim Brown aveva un grosso ascendente sul pubblico femminile. Come gestiva il rapporto con le fan? E per gli altri componenti del gruppo era la stessa cosa?

Bè, Kim era, ed è tutt’ora un uomo molto bello, biondo e soprattutto era una rockstar e, specialmente in Italia, questo faceva molto presa sul pubblico femminile. Era ben inserito in un certo giro, suonava spesso al Piper, fin da quando faceva parte dei Renegades, e questo gli procurava un certo successo con le ragazze. Per quanto riguarda gli altri componenti della band, non so dirti con precisione, anche perché all’epoca li conoscevo solo attraverso la televisione e i giornali, però penso che avessero un certo successo anche loro, non quanto Kim, che era il frontman del gruppo, ma comunque, penso che non se la passassero male. A chiunque sia curioso comunque consiglio di inserire su YouTube la parola Renegades, dove si trovano alcuni video dell’epoca che sono molto interessanti.

C’è un aneddoto divertente riguardante quel periodo della tua vita o qualcosa che ricordi con particolare piacere?

Ricordo con molto piacere che nella mia città di provincia, Molfetta, vicino a Bari, grazie all’amministrazione di allora, arrivavano molti musicisti importanti per esibirsi, in particolar modo molti jazzisti di livello internazionale, e in quelle occasioni ho potuto conoscere di persona e scambiare due parole con artisti di enorme talento, come Dizzy Gillespie, Archie Shepp. Se ti devo raccontare un’aneddoto in particolare, ti posso parlare di quando siamo capitati dopo un concerto, nella stessa trattoria in cui si trovava il grande batterista Danny Richmond, che suonava con Charles Picus; io ero un ragazzino, e ricordo che lui mi fece una dedica “All The Best, Danny Richmond”, che allora non sapevo nemmeno cosa significasse, però mi fece tantissimo piacere ed è una cosa che ricordo molto volentieri. Devi sapere che all’epoca, per quanto noi seguissimo il rock, quando abbiamo avuto l’opportunità di vedere all’opera musicisti di quel livello, ne siamo rimasti veramente impressionati. Cme periodo ci trovavamo intorno alla fine degli anni ’70, 1977 1978 più o meno.

E’ stato difficile dall’essere un semplice chitarrista, riuscire a crearsi una carriera e raggiungere una certa popolarità come solista e frontman di un gruppo che porta il tuo nome?

Giù, al mio paese, ero piuttosto popolare, ma non abbastanza da permettermi di mantenermi grazie alla musica, e non c’era nemmeno la possibilità di lavorare. Così una ventina di anni fa ho deciso di trasferirmi a Milano in cerca di prospettive migliori; qui per fortuna ho conosciuto Kim Brown e grazie a lui ho avuto la possibilità di iniziare questa carriera. Dieci anni intensi insieme a lui mi hanno permesso di farmi conoscere in tutta Italia come chitarrista blues e di rock n’roll. Poi le difficoltà in Italia per chi suona questa musica di sicuro non mancano, ma noi abbiamo la fortuna di eseguire un repertorio che grazie a Dio piace sempre. Io mi sono dedicato maggiormente a Stevie Ray Vaughan, a Jimi Hendrix e a Clapton, che sono i chitarristi seguiti con maggir attenzione dal pubblico e questo mi ha favorito un po’. Poi ci sono molti bassisti e molti strumentisti milanesi che sono bravi, così tutto diventa molto più facile. Ci sono anche molti locali, anzi c’erano, perché adesso viviamo in un periodo di crisi del live nei club. Insomma, è stato un insieme di fattori positivi.

Il blues non è sicuramente tra i generi musicali più diffusi in Italia. Il fatto che sia un genere particolare e un po’ nascosto è un vantaggio o uno svantaggio per un bluesman? Possiamo trovare qualche aspetto positivo in questa situazione?

Di positivo c’è che essendo specializzati a fare questo genere di musica, la gente ci chiama bluesmen, e quindi anche per le nuove generazioni rappresentiamo un punto di riferimento importante. Per quanto riguarda le serate, sicuramente siamo un po’ in difficoltà, perché l’undergraund in Italia è morto; per esempio, alle varie feste dell’Unità, a tutte le feste di piazza, non chiamano più i gruppi blues, che vengono chiamati solamente nei locali specializzati, oppure nei festival blues. Poi in Italia c’è un’altra difficoltà, data dal fatto che arrivano molti musicisti americani, per questo noi italiani siamo messi un po’ da parte nelle occasioni più importanti. Naturalmente con loro c’è un rapporto di amicizia e di scambio culturale, però si sa come funzionano le cose da noi, dove per certe espressioni musicali, si tende a preferire un musicista straniero ad un italiano, solo per il fatto che l’altro è straniero.

Sei considerato sicuramente uno degli esponenti del blues più importanti in Italia. Come ma hai deciso di autoprodurre i tuoi lavori? E’ una scelta di libertà artistica o una necessità dovuta al fatto che le major non intendono investire in questo genere di musica?

Bè, sicuramente è un fatto positivo perché lascia al musicista una totale libertà artistica, però indubbiamente è anche una necessità perché le case discografiche di sicuro non aiutano a produrre. Questo perché quando un dicografico decide di produrre un disco investe anche decine di migliaia di euro nel progetto, e quindi siccome un cd di musica blues non è sicuramente un prodotto che riesce a vendere decine di miglia di copie, dal loro punto di vista è un atteggiamento anche abbastanza comprensibile. E così, la maggior parte dei musicisti blues sono costretti ad autoprodursi, ma non è poi così male, anche perché noi è vero che investamo una certa somma per produrre, però poi vendendo i cd direttamente al pubblico riusciamo a riassorbire l’investimento.

Parliamo di Parmatown, il cd in cui per la seconda volta ti avvali della collaborazione di Dante Boccuzzi. E’ un disco che si discosta abbastanza dal tuo genere. Come mai questo cambio di rotta? Come vi siete conosciuti e quanto ha influito la presenza di Dante in tutto ciò?

Ho conosciuto Dante in un club a Milano, io mi stavo esibendo, e c’erano dei suoi amici che mi chiedevano di fargli cantare una canzone. Io l’ho fatto cantare, non mi ricordo di preciso cosa, probabilmente qualche pezzo di Clapton, e mi è piaciuta subito la sua voce. Siamo usciti a cena insieme e abbiamo deciso di vederci più spesso e di iniziare a provare qualche pezzo insieme. Per me era interessante avere una voce di madrelingua inglese. Io sono sempre stato molto vicino alla musica americana più moderna, al grunge, e lui era la persona adatta per potermi far esprimere certe scelte musicali di quel tipo, e poi il fatto di avere un cantante americano nel disco dà al lavoro sicuramente un valore aggiunto, per lo stesso discorso che facevo prima sulla competizione con gli artisti stranieri. Un italiano che canta in inglese, difficilmente riesce ad avere successo all’estero, è più facile sei sei un musicista. Molti amici miei ce l’hanno fatta, come Joe Colombo, però per i cantanti è più diffcile. Recentemente ho sentito cantare in inglese gli Afterhours, che sono molto bravi, e vendono bene anche in America, però sicuramnte non è un impresa facile.

Molti pezzi di Parmatown e altri tuoi brani, vengono trasmessi da diversi circuiti radiofonici americani. Come mai in Italia le radio non hanno la stessa attenzione per artisti del tuo calibro?

In Italia le radio trasmettono principalmente musica più commerciale. Sono poche quelle che trasmettono musica blues, come per esempio Lifegate, che da quello che so ogni tanto trasmette qualche mio brano, oppure per esempio c’è un’altra radio, Città del Capo di Bologna che una volta ha addirittura trasmesso un mio concerto in diretta, però sono momenti che la radio dedica al blues, e sono episodi molto isolati.

Sappiamo che i tuoi punti di riferimento musicale sono sicuramente Hendrix e Vaughan, ai quali hai anche dedicato un disco. Però sfogliando l’elenco delle tue collaborazioni vediamo che hai suonato con artisti che praticano generi anche molto diversi dal tuo, come per esempio Bugo. Qual è il tuo rapporto con gli altri generi musicali? Cosa ti piace ascoltare oltre il blues?

Bè, a me piace ascoltare tutta la musica. Sono sempre vicino in particolar modo a chi è giovane e fa della musica nuova. Bugo, per esempio, veniva da me per imparare a perfezionare un po’ il modo di suonare, però non avevo capito che questo ragazzo aveva anche delle grandi capacità creative; poi quando lui mi ha fatto sentire i suoi primi brani mi sono molto piaciuti. D li sono nate alcune collaborazioni, anche perché c’erano i presupposti per fare qualcosa di importante a livello nazionale, lui alle spalle ha anche una grossa casa discografica, la Universal. In particolar modo abbiamo lavorato insieme ad un progetto acustico, un cd intitolato “La Gioia di Melchiorre” in cui io suono e lui canta C’è anche una canzone dedicata a me, “Se avessi cinquant’anni”, che è molto bella. In generale comunque il cantautorato italiano mi piace molto. Ascolto De gregori, De Andrè, Tenco, Guccini… adesso non vorrei dimenticare qualcuno. Quasi tutti i cantautori italiani comunque sono bravi, in particolar modo apprezzo Tenco, anche perché lo ascoltavo fin da quando ero giovane, nonostante fossi già un convinto seguace del rock.

Una curiosità: cosa fai prima di un esibizione dal vivo?

Dunque, la fatica principale stà nel montare e preparare gli strumenti, fare il soundcheck per verificare che i suoni e il service siano buoni. Poi niente in particolare, se il posto è accogliente mi preparo allo show fecendo quello che stiamo facendo adesso per intenderci, incontro gli amici, discutiamo un po’ di musica e non solo. Io sono uno che rimane molto tranquillo prima di una performance, molti altri sono nervosi, agitati, io no, sono molto rilassato, poi, una volta salito palco allora si scatena l’adrenalina e viene fuori la grinta e la carica necessaria per portare a termine una buona esibizione.

Nella tua vita ti sei guadagnato da vivere in molti modi: per esempio sei stato animatore, e tutt’oggi insegni tedesco ai ragazzi delle scuole superiori; come vivi allora la musica? Come un lavoro o più come un hobby?

Bè, come ho già detto, per prima cosa la musica dev’essere una passione, perché senza quella non si va da nessuna parte. Poi chiaramente è diventato un vero e proprio lavoro perché ti devi organizzare, devi dedicargli parecchie ore al giorno, devi scegliere i tuoi collaboratori e devi fare in modo che le cose siano non dico perfette, ma almeno adatte per portare avanti nel migliore dei modi il concerto. Quindi un hobby no, perché a questi livelli non può essere solo un hobby, anche perché comunque noi siamo pagati per suonare; diciamo che è una passione che poi diventa un vero e proprio mestiere.

Hai consigli da dare ai giovani artisti che intendono intraprendere questo tipo di carriera?

Sì, per quanto riguarda i musicisti blues e tutti i giovani che si avvicinano a questo genere consiglio di ascoltare molto i vecchi padri del blues, che molte volte sono un po’ messi da parte e ci si ricorda solo di Hendrix o di Vaughan, mentre per poter suonare il blues occorre veramente andare alle radici. Per quanta riguarda invece i giovani musicisti in generale, bisogna essere in grado subito di riconoscere se oltre alla passione, che è fondamentale, ci sia anche del talento, altrimenti, se uno non sa suonare è meglio che la musica la ascolti e basta. Però se un pizzico di talento c’è, e ripeto, si ha una grande passione, allora occorre veramente sacrficarsi e dedicare parecchio tempo alla musica. Molte volte ci sono alcuni ragazzi che iniziano a suonare senza un reale interesse, ma solo come passatempo o per potersi atteggiare con gli amici: questo un’approccio che sicuramente non è molto produttivo.

Grazie Joe per il tempo che ci hai dedicato, e buona esibizione!

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